Autore: Vittoria Butera
“Tu chi vìeni de mètere\ difriscate a ‘stu manganu”
Detto locale
‘U tilàru. Il telaio è il voluminoso strumento della tessitura. La derivazione del nome dal latino medievale telarium lo collega al prodotto, ossia alla tela.
I primi telai risalgono al neolitico. Erano costruzioni molto semplici, pressappoco un’intelaiatura rettangolare fatta con pali di legno. La tensione dei fili dell’ordito era ottenuta tramite pesi di argilla, che si trovano numerosissimi negli scavi archeologici. Questo tipo di telaio figura sui vasi greci abbinato a Penelope, la moglie di Odisseo, famosa per la pretestuosa tessitura di una tela che tesseva di giorno e disfaceva di notte.
Sino alla prima metà del ‘900, un telaio era presente in moltissime case, dove almeno una delle donne vi era addetta. Le ragazze calabresi venivano avviate molto presto alla tessitura. Poiché si operava stando sedute, tessere era considerato un lavoro leggero, quindi possibile da praticare anche dopo una giornata di lavoro nei campi, come attesta l’esortazione contenuta nel distico: “Tu chi vìeni de mètere\ difriscate a ‘stu manganu”. In alcuni paesi, il telaio era definito per sineddoche prendendo il nome da una sua parte, ‘u manganu.
Il telaio occupava un ampio spazio di una stanza, costituendo una zona attrezzata per la mansione specifica. Le donne producevano tutto l’occorrente per la casa e per i familiari; confezionavano i capi del corredo, da ragazze il proprio, da sposate quello delle figlie.
La filatura
Il fuso e la conocchia,‘u fusu e ra cunocchia. Presso le antiche civiltà fuso e conocchia furono simboli delle virtù femminili, segni del tempo che corre, attributi delle dee preposte al governo della vita umana nelle sue fasi determinanti. La mitologia latina li attribuisce alla triade costituita da Parca, Nona e Decima, dee tutelari rispettivamente del parto e degli ultimi due mesi di gravidanza. La mitologia greca ne fa gli strumenti delle Moire: Cloto, ad ogni nascita, inseriva nella conocchia lo stame; Lachesi lo filava; Atropo, l’Inesorabile, recideva il filo al termine dell’esistenza.
Nel raffigurare una nascita, pittori attenti alla simbologia degli oggetti hanno messo in evidenza il fuso e la conocchia. Vari iconografi bizantini ne hanno caratterizzato la Madonna dell’Annunciazione, essendo il momento in cui inizia l’iter del parto.
La filatura, attività terrena, nelle mani di Maria evidenzia l’unione della natura umana e di quella divina nel Figlio che genererà. La Bibbia, nel Libro dei Proverbi, definisce questi utensili ornamento di una donna perfetta, onesta e laboriosa, buona moglie e madre. Tra i mosaici di Monreale si scorge Eva con il fuso in mano, la prima donna terrena che, appena viene cacciata dal paradiso terrestre, coperta da Dio con una pelle di pecora, si appresta a generare il filo della vita del genere umano.
Nel mondo etrusco, come in quello greco-romano, il fuso e la conocchia furono emblema del destino e del tempo, e venivano inseriti nei corredi funerari a rappresentare il completamento della tela di un’esistenza. Il valore simbolico, in tale ambito, contrasta con il carattere concreto di questi strumenti che, essendo indispensabili per il fabbisogno domestico dei manufatti tessili, li troviamo come paradigma della vita nelle usanze matrimoniali. La sposa romana li riceveva in dono dalle mani della suocera, che glieli consegnava sulla soglia della casa maritale, comportamento ereditato dalle tradizioni matrimoniali di vari paesi della Calabria; in Sardegna, la sposa arrivava nella sua nuova dimora su un carro, tenendo in mano il fuso e la conocchia, come promessa di laboriosità e attaccamento alla casa. Essendo oggetti che, con il carico dei significati, oltrepassano l’uso, in alcune regioni italiane ed europee, venivano evidenziati nel corredo della sposa con ornamenti e decorazioni.
Nell’esemplare più comune, il fuso era costituito da un fusto più o meno lungo, e da un cappelletto sormontato al centro da un’asola metallica. La conocchia era formata da due parti: un piede tornito come il fusto del fuso; un manufatto sovrastante, creato con strisce di canna o di legno flessibile, che conteneva la fibra allo stato grezzo. Qualche innamorato, nel costruire la conocchia per la donna amata, scolpiva sull’apice una minuscola figura lignea che rappresentava la destinataria.
Per filare, la donna aveva bisogno di una sedia con un bracciolo attrezzato, dove infilava il piede della conocchia, in modo che, liberatasi le mani, si potesse concentrare sul flusso dello stame e sulla rotazione del fuso. Dall’antichità sino a tutta la società preindustriale, l’abilità nella filatura è entrata nei criteri della valutazione femminile. Un’epigrafe su una tomba di Pompei recita:
“Domi mansit, lanam fecit ”
Traduz. “E’ stata in casa, ha filato la lana”.
La donna filava nei ritagli di tempo, specialmente la sera. Anche se stanca, dopo una giornata di fatica, si proponeva di produrre una certa quantità di filato prima di andare a dormire, e quando le si abbassavano le palpebre per il sonno, volendo resistere sino all’adempimento del compito prefissato, esortava il sonno ad attendere cantarellando una quartina, forse volutamente sapida di una certa ambiguità:
“Buonu venutu, zu Sazìeri,\ piglia la seggia e siedi,\ cà mo’ finisciu ‘sta cunocchiata\ e pue nne facimu ‘na bona abbrazzata”.
Traduz.: “Ben venuto, zio Sazìeri, prendi la sedia e siediti, che ora finisco questa roccata, e poi ci facciamo una bella abbracciata”.
Cunucchiata era la quantità di fibra contenuta nella conocchia da filare. Nell’antica Roma si diceva pensis la quantità di lana assegnata ad una schiava da filare in un giorno.
L’arcolaio,‘u nimulu. Gli strumenti della filatura, fatti con legno comune o pregiato, dalla forma semplice o elaborata dalla fantasia dell’artigiano, hanno accompagnato la vita della donna nel corso dei secoli. A volte, diventavano i confidenti muti delle aspirazioni interiori e specialmente delle mortificazioni della donna, che non aveva possibilità di esprimere il suo parere, tanto meno di realizzarsi nell’interno della famiglia patriarcale e della società. Ecco come una monaca di casa di Serrastretta confidava all’arcolaio le sue tacite pene: “’Ngira, ‘ngira, nimulicchiu miu,\ca te cuntu ‘a pena ch’aiu iu.\Avìa ‘nu frate e ‘na mala canàta,\facìa lle cose e dicìa ch’era iu.\’ngira, ‘ngira, nimulìcchiu miu”. Traduzione: “Gira, gira, mio piccolo arcolaio\ che ti racconto la pena che ho io.\Avevo un fratello e una cattiva cognata;\combinava guai e accusava me.\ Gira, gira, mio piccolo arcolaio”.
In Natale, Vittorio Butera ricorda la figura della nonna inseparabile dal fuso e dalla conocchia:
‘A vecchiarèlla mia, fusu e ccunocchia,
Fila cumu sulìadi ‘nquatraranza;
Iu le zumpu cuntìentu a re jinòcchia, Illa me cunta llesta ‘na rumanza
Vittorio Butera
Traduzione: “La mia vecchietta, fuso e conocchia,\fila com’era solita in gioventà;\Io le salto contento sulle ginocchia,\lei mi racconta subito una fiaba”.
Il cardo
‘U cardu. Cardo o scardasso è il pettine rudimentale usato per cardare le fibre tessili. Durante la cardatura, le donne greche si proteggevano il ginocchio su cui operavano con una tegola di terracotta, detta ònos (asino) perché la ponevano a cavallo della gamba a mo’ di sella. Nel museo di Eretria si conserva un esemplare non comune, raffigurato con scene da gineceo; forse fu un dono nuziale. ‘U cardu ispirò la serenata di un innamorato calabrese che, osservando a distanza la donna amata, l’aveva vista pungersi mentre cardava la lana, perciò per dimostrarle che s’interessava a lei e seguiva quotidianamente le sue azioni, andò a cantarle questi versi di cui era autore:
“Cardu malìgnu troppu ‘mpertinente,\cacciàsti sangu a cchine bene vùogliu iu\e mo, ti nn’hai de jìre ardènte ardènte,\sinnò, ma cacciu ccu ttie ‘sta raggia mia”
Traduzione: ” “Cardo maligno, troppo impertinente,\hai ferito a sangue colei che amo,\e ora te ne devi andare veloce veloce,\altrimenti sfogo su di te la mia rabbia”.