tratte dal lessico di Conflenti
Autore: Vittoria Butera
Recuperare i dialetti locali e le culture prodotte dalle popolazioni che li parlano vuol dire non solo salvaguardare un bagaglio cospicuo della nostra storia da trasmettere alle generazioni future ma anche mantenere strumenti linguistici capaci di esprimere un punto di vista diverso rispetto alla lingua nazionale e di fornire una diversa percezione della realtà. Il percorso delle parole, e di tutto ciò che è collegato alle idee e ai comportamenti umani, è lungo e ricco di storia. Simboli, segni grafici, riti, miti e leggende rispondono a varie esigenze, in particolare al bisogno di sentirsi parte di un’ideologia, di un gruppo, di un popolo, di una fede religiosa. Il cristianesimo soddisfa il bisogno di appartenenza dei suoi seguaci non solo con i contenuti fideistici e con i riti sacramentali ma anche con una selva di simboli. Come succede al passaggio tra culture, il cristianesimo ha ereditato una gran parte del suo patrimonio emblematico dal complesso religioso del mondo antico; ne ha effettuato la riplasmazione e vi ha innestato i propri valori. Persino la nascita di Gesù, il più importante dei suoi eventi, è stata sovrapposta alla festa di Mitra o Sole nascente che coincide con la risalita del sole dopo il giorno più corto dell’anno il 23 dicembre. La continuità di culture antitetiche come la cristiana e quella detta pagana si verifica sia per la difficoltà di sradicare comportamenti consolidati e concezioni remote sia per la mancanza di un proprio patrimonio segnico da parte della religione nascente.
Nel seguire le tracce dei riti e dei segni attraverso le epoche, emergono l’adattamento nel legame tra le epoche e i cambiamenti successivi negli stessi secoli cristiani. È un percorso affascinante perché rende il senso dei tempi; spiega, inoltre, la persistenza attuale delle parole e dei comportamenti superstiti.
I vocaboli nel loro lungo percorso subiscono mescolamenti e stratificazioni e, pur rimanendo aderenti alle radici, si adeguano alle epoche che attraversano e ai tratti distintivi della popolazione che li usa. Lungi dall’essere puramente formale, l’uso delle parole risponde a criteri di contenuto, di senso, di civiltà. Dietro le parole si snodano storie di vita, di ideali, trionfi e sconfitte, cadute e ascesa delle famiglie e dei popoli. È affascinante seguire il percorso delle parole attraverso le stratificazioni etniche e le corruzioni fonetiche; ancora più affascinante cercare cosa c’è dietro, evincere il senso profondo e gli indicatori dell’antropologia locale. Incominciamo a ricostruire il tracciato storico di alcune parole di Conflenti.
Abitìnu, scapolare. Lo portavano i bambini sulla pelle, sotto la maglietta interna. Nella forma più semplice, lo confezionavano le mamme come una collana costituita da un laccio con appeso un sacchetto contenente un’immagine sacra. In alcuni paesi inserivano anche un simbolo apotropaico, come un pezzetto di ferro (o una monetina), una conchiglia, un chicco di sale. Serviva a proteggere il bambino dagli spiriti, specialmente dall’umbra. L’affidamento alla sua tutela era totale e la sua presenza quasi connaturata, come fosse una seconda pelle. Il nome abitìnu, dal latino habitus, assume quindi il senso traslato di modo di essere, è l’abito interiore, la personalità. L’uso di un talismano simile era diffuso nell’antica Roma: si chiamava crepundia e conteneva un’immagine che con il gesto intimava il silenzio.
Addrupeddratu, Allupellatu. Ha a che fare con l’atavica paura del lupo. In senso letterale è traducibile in allupato, affamato come un lupo, ma appartiene al campo semantico del dolore, e come altri vocaboli di questo significato è fortemente onomatopeico. Deriva dalla radice greca ol di ollumi (distruggere)+ lype (dolore), e vuol dire distrutto dal dolore; denota una persona afflitta da una così grave sofferenza da manifestarla fisicamente, come fosse stampata nel suo corpo.
Brache, mutande. Nella sfumatura ironica diventava brachesse, brachessine. La sfumatura ironica deriva dagli antichi greci che pronunciavano il vocabolo brakai con disprezzo perché erano i calzoni usati da vari popoli barbari, tra cui galli, persiani, sciti.
Cattiva. Nel linguaggio locale cattiva è la vedova. Da captiva (latino capio: prendere, catturare), vuol dire prigioniera. Si collega all’idea che la vedova sia prigioniera della morte, ossia del marito morto; tale status pregiudicava un secondo matrimonio. La vedova doveva esibire lo stato civile nell’abbigliamento tradizionale portando il panno di colore nero per tutta la vita: prigioniera della morte e dei colori.
Civilizze. È un vocabolo nato dalla sensibilità del bello, della gentilezza, della raffinatezza del sentire individuale e collettivo. Fa parte delle espressioni di civiltà, comuni ai dialetti calabresi, che attestano un aspetto etnico trasmesso attraverso le generazioni. Civilizze esprime le manifestazioni d’affetto, specialmente accoglienza, ospitalità. Riporta agli antichi greci che avevano dell’istituto apposito della prossenìa per l’accoglienza degli ospiti, che consideravano sacri e ne affidavano la tutela alla massima divinità olimpica di Zeus. È significativo che la cultura calabrese, ereditando questa concezione identifichi con la civiltà stessa i riti dell’accoglienza e della buona educazione. Vittorio Butera lo usa in ‘A Staffetta per comunicare con una sola parola l’intero complesso dell’accoglienza: centralità dell’ospite, massime attenzioni per la sua persona, offerta di cibi prelibati, interpretazione dei desideri, regali ospitali, intrattenimento.
Empuse, dal greco empaizo (schernire), erano figure invisibili che comparivano nell’aspetto femminile nei crocicchi per fare scherzetti di cattivo gusto ai passanti.
Erramu e spatornatu, rispettivamente: dal greco errama (da errapto) che vuol dire pezza cucita sopra, ossia rattoppato; e dal greco spao (che include i significati di tormento, strappo psicologico e fisico…;), quindi l’espressione denota sia la povertà materiale che la deprivazione psicologica.
Fullùne. involucro di pezze, che serviva per raccogliere la prova della verginità. Deriva dal greco fulloma, che significa fogliame ed evidenzia il collegamento tra vegetazione e verginità. Uno o due giorni prima delle nozze le due consuocere, a cui spettava preparare il letto nuziale, lo ponevano tra il materasso e il lenzuolo. In alcuni paesi non veniva usato perché la prova doveva restare sul lenzuolo che sarebbe stato steso al balcone per esibire alla comunità la verginità della sposa.
Gabbu. Un forte contributo alla connotazione della passata società, del suo retaggio culturale primitivo lo fornisce la parola gabbu (’u gabbu), cioè la vergogna, per cui la gente osservava rigorosamente i valori comunitari per conquistarsi la stima e rifuggire dall’onta della vergogna. Questa ideologia ci porta al mondo greco arcaico, che il filologo inglese Eric Dodds (I Greci e l’irrazionale) classifica come civiltà di vergogna distinguendola dalla civiltà di colpa. Civiltà di vergogna è quella omerica. Gli eroi omerici agiscono attenendosi al criterio della considerazione che le loro azioni possano suscitare sugli altri; ciò che vogliono evitare è la vergogna (aidòs) che genera il biasimo. Nelle civiltà di vergogna è sentito come insopportabile tutto ciò che facendo “perdere la faccia” espone l’uomo al ridicolo e al disprezzo dei suoi simili. Ettore affronta Achille pur sapendo di andare incontro alla morte per non incorrere nella vergogna di fronte alle donne troiane. Dalla Grecia arcaica, la società di vergogna è arrivata sino alle comunità del nostro passato recente, quando i comportamenti ritenuti inadatti ai modelli comunitari venivano repressi sin da giovanissima età per evitare di essere emarginati. La trasgressione delle norme da parte di una persona contaminava l’intera famiglia, e nei casi più gravi tutto il gruppo parentale.
Gabbatu\a. Pur avendo la stessa etimologia di gabbu, appartiene a un’area di significati diversi. Questo vocabolo si applica a chi viene ingannato, chi subisce un raggiro da parte di persone di cui si fida. Se il raggiro è tale che una persona accorta dovrebbe rendersene conto, allora l’aggettivo gabbatu passa nell’area dello stupidotto: ciùotu, ciotàle, ciotarrùne, ‘nu buonu Jugàle.