Autore: Vittoria Butera

La parola stigli, dal greco steileiòn, in italiano appartiene al settore agricolo e denomina gli strumenti che separano il tiglio della canapa e del lino dal fusto. In Calabria denomina l’universo degli oggetti presenti in una casa, in un laboratorio artigianale, nella strumentazione agricola. L’estensione del vocabolo dagli arnesi dei campi all’oggettistica domestica e del lavoro afferma la preminenza dell’agricoltura sugli altri aspetti della società preindustriale. 

Gli utensili acquisirono magia entrando in una sfera che trascendeva la loro applicazione nel momento in cui gli uomini, servendosi di attrezzi elementari, si resero conto d’impiegare uno sforzo minore nelle operazioni manuali. Trasferirono quindi l’effetto delle migliorate capacità esecutive ad una virtù prodigiosa che presupponevano insita negli oggetti. Vladimir Propp cita esempi di questo transfert, dai lapponi che aggiudicarono al sasso e alla clava la presa della preda ad alcuni gruppi indiani che veneravano i bastoni con cui scavavano le radici. Quando poi il perfezionamento tecnico degli strumenti consentì risultati migliori facilitando le esordienti attività agricole e il lavoro umano, s’incrementò il carattere magico. Queste attribuzioni primordiali di straordinarietà, viaggiando con gli oggetti attraverso i secoli e nei vari contesti geografici, aggiunsero sfumature semantiche oltre i confini del semplice utensile.

Nell’antica Roma cinconfusero di ritualità gli oggetti-doni. Lo attestano due opere di Marziale, Xenia e Apophoreta. In Xenia l’autore tramanda gli epigrammi di accompagnamento dei doni degli ospiti. Apophoreta raccoglie i versi dedicati agli oggetti da portar via, che venivano estratti a sorte e offerti ai convenuti nei banchetti secondo la consuetudine dei Saturnalia. Lo scambio dei doni simbolizzava la mutualità della sorte, e conferiva agli oggetti il potere di migliorare lo status e il tenore di vita degli individui.Poiché le comunità agricolo-pastorali erano basate sulla circolarità dei beni, regalando un oggetto si vincolava il ricevente alla reciprocità; accettarlo valeva come pegno, la promessa tacita del contraccambio. Il dono futuro, sarebbe stato pari o accresciuto del valore morale della stima, cioè il rispetto dimostrato dal donatore verso il ricevente e la sua famiglia, ma veniva anticipato con un segno, ad esempio la bomboniera nei riti che segnano una svolta nella vita delle persone, in particolare il matrimonio. Il ricevente esplicitava la volontà della restituzione aggiungendo ai ringraziamenti la formula: A buon rendere. Oltre a favorire la circolazione dei beni, gli oggetti-dono trasmettevano la loro potenza magica, ed erano di buon auspicio in ogni circostanza importante dell’esistenza a incominciare dal battesimo con l’attribuzione del nome, che secondo la concezione di antichi popoli ha in sé il destino dell’essere.

Se ricevere un oggetto era augurio di buona fortuna, esserne derubati, presso alcune società primitive, manifestava l’accanimento della sorte. Secondo tale ottica, il ladro non va incontro a conseguenze del suo operato, mentre il defraudato risulta perseguitato da parte del destino, che agisce seguendo una logica interna alle diverse concezioni culturali. Nella Grecia arcaica, la perdita di un oggetto avrebbe prodotto un riequilibrio della felicità per evitare l’invidia degli dei. Successe a Policrate, re di Samo, di buttare in mare il più caro dei suoi oggetti personali, pur di diminuire i favori della fortuna e sfuggire alle disastrose conseguenze della hybris, che per gli antichi greci era l’arroganza dell’uomo che tentava di superare i limiti umani per vivere nell’aura di felicitas degli dei. 

Fino al recente passato, gli oggetti d’uso sono stati potenziati dal valore della manualità e dell’appartenenza. Che fossero realizzati personalmente per farne un dono, commissionati per una ricorrenza o costruiti in congrue quantità per le fiere, contenevano le caratteristiche dei luoghi di provenienza, le tipicità di una bottega, la perizia e l’estro del loro artigiano. Erano oggetti che sprigionavano magia e raccontavano storie di paesi, che evocavano fiumare scroscianti e colline ventose, che trasportavano con sé la frescura di cime innevate o il sapore salmastro delle marine.

A ra tavula e a ru tavulìnu se canusce ‘u signurinu

Detto locale

L’epoca del consumismo era lontana, e gli utensili passavano da una generazione all’altra finché diventavano inservibili. Presso alcune comunità facevano parte della dote della donna; in altre spettava all’uomo corredarne la casa; molti li ricevevano in dono alle nozze, e li esibivano nelle vetrine come status symbol di un accresciuto benessere. Per una sposa trovare una casa stigliata, ossia con tutti gli oggetti necessari, era indice di un matrimonio ottimale. Nelle case dei poveri, il vasellame era scarsissimo, e il numero delle posate non corrispondeva ai componenti della famiglia. Non era insolito prendere il cibo con le mani per la carenza di forchette né mangiare da un unico tegame, ma non mancava uno strofinaccio su cui poggiarlo, agendo, a livello consapevole o subliminale, la vecchia credenza che, se la pentola avesse lasciato l’impronta della cenere, qualcuno, operando su di essa, avrebbe potuto impadronirsi dell’oggetto, avvelenare il cibo o compiere altri sortilegi.

La penuria di stoviglie è stata una discriminante dei comportamenti tra ricchi e poveri, avendo impedito l’apprendimento delle buone maniere a tavola. Il calabrese ne è consapevole; il detto locale: “A ra tavula e a ru tavulìnu se canusce ‘u signurinu” attesta l’opinione che il signore si distingua per il livello di educazione acquisita nel mangiare. In quel mondo di essenzialità, dove il miglioramento della qualità della vita era misurato sul possesso di un nuovo utensile, nessuno avrebbe potuto recepire neppure come traslato dell’arte pittorica la frase di Malevič: “Liberiamoci dalla tirannia degli oggetti”, che include comunque una concezione riguardante non solo la pittura, ma anche i comportamenti degli individui e il sistema sociale.

Nelle società preindustriali, la maggior parte delle famiglie disponeva degli utensili essenziali per le mansioni quotidiane; quelli d’uso periodico li chiedevano in prestito. Alcuni manufatti furono tutelati da credenze ataviche, come la caldaia di rame che aveva un costo accessibile a pochi, e poiché chi la possedeva non poteva rifiutarla per la consuetudine della reciprocità vigente nel vicinato, intervenne la prevenzione popolare a porre un limite vietandone il trasporto dopo il tramonto del sole. Spettò, comunque, alla stessa cultura popolare risolvere l’antinomia subentrata, affidando la protezione del recipiente a un tizzone ardente al suo interno, contro il male sempre in agguato nella notte. 

Oggi gli utensili che hanno esaurito la loro funzione tradizionale, oppure sono stati sostituiti da prodotti industriali, vengono raccolti nei musei etnici; quelli di pregio, trasmessi insieme alle case, spiccano tra gli arredi moderni. Molti mantengono l’uso di sempre, ma essendo costruiti in serie hanno perso la suggestione dell’unicità e il sentimento del tempo che patinava i vecchi oggetti, né si connotano della carica affettiva che si stratificava al passaggio delle generazioni. 
Il tempo lungo degli oggetti è finito. Dopo essere sopravvissuti alla vita dei proprietari inserendosi nella catena dell’ereditarietà, nella società attuale vengono moltiplicati senza limiti, usati, consumati, accartocciati, gettati via; spesso, travolti nella labilità di un flusso velocissimo di pochi secondi, come i fazzolettini di carta o i bicchieri di plastica, finiscono tra i mucchi dei rifiuti che deturpano l’immagine delle città e inquinano il paesaggio. 
Insieme ai vecchi oggetti sono scomparsi habitat agresti, scorci di paesaggi, tipologie floreali, ambientazioni domestiche, architetture tipiche della società agricola. Non è rimasto indenne dal rinnovamento l’arredo floreale negli interni. Piante comprate nei vivai introducono scampoli del globo laddove crescevano begonie nostrane, foglie da camera, e nastrini variegati che, dall’alto di apposite angoliere, lasciavano pendere i verdi ciuffi come gioielli vegetali. 

Le camere da letto matrimoniali, nell’ambito di una stessa classe sociale, erano affini per mobilio e spazi. Tra gli oggetti di arredo non mancava il carillon costituito da un bauletto d’argento: aprendo il coperchio emergeva una ballerina e danzava al ritmo di note romantiche. Completato il giro di danza, la ballerina rientrava nel suo abitacolo. La breve evasione musicale finiva e le urgenze familiari richiamavano la donna alla concretezza della quotidianità.

Hanno perso il posto sui comò le grandi conchiglie che, nei paesi montani, le donne e i bambini avvicinavano all’orecchio per ascoltare il tipico mormorio interpretato come voce del mare.

La presente ricerca è stata effettuata in una vasta area della Calabria, per aprire, attraverso gli oggetti, una finestra sulle culture e sulla vita quotidiana della popolazione regionale. I riferimenti particolari sull’uso degli oggetti e le espressioni dialettali sono di Conflenti (CZ). Poiché gli oggetti hanno denominazioni diverse nei diversi dialetti, per i titoli si è trovata la mediazione nella lingua nazionale in modo che siano comprensibili a tutti con immediatezza.

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