Autore: Vittoria Butera

L’abito regionale femminile si diversifica per molti dettagli nei vari comparti territoriali. Subisce anche modifiche nell’ambito dello stesso paese per adattarsi al mutamento della produzione. Immagini di fine Ottocento di Nocera documentano i capi dell’abbigliamento tutti di seta, che alleggeriva molto il complesso costume.

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Costume femminile di seta. Nocera, fine ‘800

Quando la produzione serica domestica diminuì fino a scomparire si utilizzò il cotone, che arrivava dall’America a prezzi bassi. La fine dell’allevamento del baco da seta modificò il paesaggio, che perse le grandi estensioni dei gelsi delle cui foglie si alimentavano i bachi

‘A pacchiana. Il nome pacchiana si applica sia al complesso abbigliamento regionale, sia alla donna che l’indossava. Dove essenziale, dove ridondante di pizzi e ricami, il costume comprendeva capi comuni e simbologie cromatiche nelle differenziate tipologie locali.

‘U mannile: copricapo dalla foggia monacale, lungo sino alle spalle, obbligatorio per occultare i capelli. Nella forma semplice di un ampio fazzoletto, si chiamava maccatùru o tovagliòla. Laddove non aveva la funzione di denunciare lo stato civile della donna, il colore era scuro. Fu oggetto di attentati da parte di qualche pretendente rifiutato che, toccandolo o, più gravemente, togliendolo dalla testa della donna, la costringeva al matrimonio. 

‘A cammisa: sottana di cotone bianco, larga, e lunga sino ai talloni.

‘A cammigetta o spinsa: camicetta. Assecondando le tradizioni dei vari paesi, era semplice o carica di ricami, di fettucce, nastrini e merletti. Se un audace pretendente slacciava i mastrini di una manica, la donna era compromessa, e nessuno l’avrebbe sposata eccetto l’attentatore che, con quell’atto, aveva dimostrato intimità con lei.

‘U pannu: lungo telo che si indossava sulla camicia, avvolgendolo al corpo dal busto in giù. Nei paesi del medio Tirreno, il colore di questo indumento denotava lo stato civile: rosso per le sposate; marrone o prugna scuro per le nubili; nero per le vedove. I paesi del presente progetto sono distinti come “Paesi del panno rosso” per il significato assunto da questo indumento.

‘U cursè: corsetto con stecche di legno che reggeva il seno; è detto anche jippune o bustinu.

‘A fadiglia o gunneddra: ampia gonna plissettata, di colore scuro: blu, marrone, verde.

‘U fadale o mantisinu: grembiule. In alcuni paesi, il fiocco del grembiule evidenziava lo stato civile.

‘U sciallu o sciarpune: scialle di tessuto diverso: di seta per l’estate; di tessuto caldo o lana bouclé per l’inverno. 

I quazietti: calze di lana o cotone, che arrivavano sopra il ginocchio. 

‘E lastiche: elastici con la funzione di reggicalze; rimasero in uso fino alla diffusione dei collant.


I pantaloncini con lo spacco, càuzi ccu ra spaccanza. Nella società preindustriale, gli indumenti dovevano distruggersi tramite l’uso perciò passavano da padre a figlio e da fratello maggiore al minore. Se i pantaloni del fratello maggiore erano troppo grandi, venivano forniti di tiranti, e richiedevano complesse operazioni per abbassarli e tirarli su. Fino all’età di sei o sette anni, i bambini avevano pantaloncini con uno spacco tra le gambe, che facilitava il modo di espletare i bisogni fisiologici.

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Pantaloncini con lo spacco. Nocera, prima metà del Novecento


Calzature. Per rallentare la consunzione delle scarpe, si sovrapponeva una protezione. La parte del tacco veniva costellata di tacce, o tingilli: erano chiodi apposti che essendo metallici non si correva il rischio di consuarli. Le parte anteriore delle suole veniva rinforzata applicando pezzi di ferro a forma di falce, ‘e menzelune. Questa precauzione si prendeva per le scarpe dei ragazzi, perché con il loro dinamismo “strudenu puru ‘u fierru” (consumano persino il ferro). 

I pastori portavano calzature rudimentali dette purcìne. Ognuno se le costruiva da sé con un riquadro di cuoio rinforzato che avvolgeva il piede. Le estremità si congiungevano con lunghi lacci bianchi legati attorno ai malleoli. Nei paesi marittimi, usavano questo tipo di calzatura i pescatori utilizzando la pelle consistente del pesce porco.


Il mantello, ‘u mantu. Fino ai primi decenni del ‘900, il calabrese ha indossato il mantello. La foggia e la qualità corrispondevano alla classe sociale: mantelli di tessuto pregiato con rifiniture di velluto o di pelliccia contrassegnavano la classe signorile; il mantello di panno rustico dalla foggia comune, detta del brigante, era diffuso negli strati popolari. 

Nelle famiglie povere, mancando le coperte per tutti, il mantello, di giorno, copriva la persona, di notte il letto. Era una necessità, ma non manca la suggestione simbolica del dormire o giacere sotto un mantello nero, che in numerosi racconti vuol dire appartarsi dal mondo, compiere un viaggio nel tempo e nello spazio per acquisire saggezza e conoscenze, regredire nel ventre materno per rinascere a nuova vita.

Il cappotto sarebbe stato diffuso, con il nome di cottu, dagli emigrati che arrivavano in visita dall’America. Vittorio Butera ricorda con ironia la figura di Japicu, che tornato dall’America, sfoggia lo slang tipico degli emigrati che lui crede sia americano e indossa ‘u cottu.


La cintura, ‘a currìja. La cintura del vecchio calabrese era di cuoio. La usavano normalmente per reggere i pantaloni e, all’occorrenza, come mezzo di difesa o di offesa essendo sempre a portata di mano. Si tratta pertanto di un oggetto che, esulando dall’abbigliamento, conferiva sicurezza e tutela all’uomo che l’indossava. Tra le popolazioni nordiche assunse una valenza magica: lo attestano vari miti ed è un dato confermato a livello archeologico dal reperimento, avvenuto in Danimarca nel 1950, del cadavere di un neolitico nudo ma con una cintura attorno alla vita.

Il carattere della difesa, tipico dei miti nordici, in Calabria conviveva con l’aspetto antitetico dello strumento di offesa. Non esitava a servirsi della currìja in sostituzione dello staffile il capofamiglia calabrese, erede dell’atavico paterfamilias dell’antica Roma avente diritto di vita e di morte su moglie, figli e schiavi, e in continuità con l’abitudine feudale di sferzare i contadini, abitudine poi passata al proprietario terriero (‘u patrùne). Stessa etimologia ha il verbo currijare, collegabile al greco kurièuo, dominare, e kùrios, padrone, e vuol dire sferzare, bastonare, mandare via in malo modo. Il nome calabrese della cintura, quindi, contiene il significato di forza e di potere connesso alla cultura del mondo mediterraneo.


Abbigliamento da mare. ‘A cammisa d’‘i vagni. Fino a tutta la prima metà del ‘900, le donne facevano il bagno con la camicia usuale della pacchiana, una camicia  bianca, larga e lunga sino alle caviglie. Immersa nell’acqua aderiva al corpo e, con l’effetto bagnato, ne lasciava intravedere i particolari. Poteva succedere che questo indumento, logorato dall’uso, si spaccasse: erano immediate l’ilarità degli astanti e le battute umoristiche.

Il costume stile bagnino. Verso la metà del ‘900, le giovani incominciarono a indossare un costume da bagno stile bagnino. Erano di lana o cotone pesante, prodotti in casa con i ferri da maglia. Impregnandosi di acqua, il filato cedeva scoprendo il seno, perciò le ragazze trovavano le mamme sulla riva ad accoglierle con un lenzuolo.  

Le cuffie da bagno. Quando ormai, negli ultimi decenni del ‘900, il costume si riduceva progressivamente in due pezzi e in topless, erano numerose le donne che proteggevano la pettinatura con le tipiche cuffie da bagno. Fatte di una sostanza gommosa, le cuffie erano molto colorate; alcune si distinguevano per le applicazioni vistose che riproducevano fiori o elementi marini. Poi prevalse il piacere di bagnarsi i capelli e le cuffie esibizioniste sparirono.

La pratica dello sport e del nuoto, e la mania di saper fare tutto bene stanno riducendo i salvagente che riempivano i mari sul corpo dei bagnanti; soltanto ai bambini più piccoli è lecito portare uno o due braccioli, che gli vengono tolti al più presto possibile.


I cappelli. Il cappellino con la veletta era una nota distintiva delle nobildonne. Essendo un capo indossato soltanto per andare in chiesa e nelle visite tra pari, non era soggetto ad usura, perciò le dame dei paesi li ereditavano ancora nuovi dalle antenate e ne possedevano un certo numero. La foggia del cappello era alquanto simile; variavano le velette, semplici o con rilievi. In maggior parte erano di colore nero; alcuni marron; i cappelli con le velette bleu o viola velavano con un fascino ricco di mistero il volto della donna.

‘A cùoppula, particolare basco con visiera tipico dei contadini. Gli uomini della buona società usavano normalmente il cappello classico, e ‘a cùoppula nell’abbigliamento sportivo, per andare a caccia o in campagna. 

Si chiamava cuoppula anche la cuffietta dei neonati.‘U tutubiscu. Questo vocabolo, che designa un cappello da ecclesiastici, nel dialetto locale ha assunto un significato ironico per mettere in satira le donne che, secondo il giudizio popolare, portavano in modo inopportuno il cappello non appartenendo per nascita alla classe signorile. Sul significato del termine sorse una disputa tra Guido Cimino e Vittorio Butera, il quale pose termine alla discussione con un sonetto affermando: “Cchi malanova fo ru tutubiscu\ e cchine ‘a prima vota l’ha ‘mmintatu!”.


Il fazzoletto, ‘u maccatùru. Da mecàzo o mecàomai, che in greco vuol dire mugghiare, belare, emettere gemiti, il nome maccatùru denomina un oggetto che viene a contatto con emissioni corporee.  

Fatti di tessuto umile o pregiato, cuciti in modo essenziale o arricchiti con pizzi e ricami, divisi in maschili e femminili, i fazzoletti facevano parte del corredo della donna. Un fazzoletto, sui cui bordi la donna ricamava una frase significativa con filo rosso, era il primo pegno d’amore, donato furtivamente nei primi approcci non ufficiali. L’innamorato lo esibiva nel taschino della giacca e lo custodiva gelosamente. Se il fidanzamento s’interrompeva, il fazzoletto, essendo simbolo d’amore, doveva essere restituito. In una canzone da serenata, un ex innamorato, che non era stato accettato dalla famiglia della ragazza, si lamenta nel vedere in mano a un altro il fazzoletto che un giorno era stato suo.

Dopo avere raccolto lacrime di gioie e di dolori, dopo essere stato latore del primo messaggio d’amore nella tradizione locale, il fazzoletto di tessuto va in estinzione, sommerso dalla produzione consumistica dei fazzolettini di carta, reperibili in ogni esercizio commerciale, proposti dagli ambulanti, incellofanati, tutti uguali, a modo loro veramente democratici non facendo distinzione di classe né di sesso.


Supramaniche e manicotti.  Vigendo l’obbligo di entrare nei luoghi sacri completamente coperte, per l’estate le donne cucivano delle maniche, lunghe o a tre quarti, da indossare in chiesa. Le donne più inclini all’eleganza possedevano un paio di supramaniche, dette anche menze maniche, del medesimo tessuto del vestito; altre usavano sempre le stesse. Questa abitudine si diffuse nei primi del Novecento, quando nelle famiglie ragguardevoli incominciarono ad accantonare il costume tradizionale. Le ragazze degli altri ceti si sarebbero liberate dei vecchi indumenti con la generazione successiva.

Anche in Calabria, tra le signore dell’alta società in inverno era di moda il manicotto, una specie di sacchetto di pelliccia, aperto dai lati per infilarvi le mani. Il detto: S’è ffattu mìntere intra ‘u manicotto esprimeva il dissenso verso un uomo che si lasciava manipolare dalla moglie.

Il nuovo look femminile, che non copriva il corpo in modo totale come quello tradizionale, scoprendo parte delle gambe e delle braccia, non mancò di produrre scalpore sia tra gli uomini sia tra le donne. Ne resta testimonianza nel componimento satirico “Eva” di Vittorio Butera, che lascia immaginare i commenti:

Eva, quannu campava,\Era ccussì ‘nnucente\

Chi ppe’ ru Paradisu caminava\Cummigliata ccu nnente.

‘Nu juornu, ‘nu sirpente\‘A fice ‘mmizziare.

Le disse: – ‘Un te vrigùogni ‘e caminare\Deccussì…. trasparente? –

Allura ‘a povarella,\ A mmenu chi ve dicu,\ 

  Se cusìu, cumu potte, ‘na gunnella\ Ccu’ ppampine de ficu.

  Doppu, pped’anni ed anni,\Cchiù scannalu ppe’ ‘un dare,\De lana o sita, tutti quanti i panni\Se fìcedi accullare. Mo, parca s’è stuffata\E gira all’usu anticu\  Ccu  mmancu, cumu prima, appiccicata\‘Na pampina de ficu!

Vittorio Butera, “Eva”.

Traduzione: “Eva, quando campava,\era così innocente\che per il paradiso camminava\coperta con niente.\Un giorno, un serpente, la sobillò.\Le disse: -Non ti vergogni di  camminare\così…trasparente?\Allora la poveretta,\in meno che non vi dico,\si cucì, come poté, una gonna\con foglie di fico.\Dopo, per anni e anni,\più scandalo per non dare,\di lana e seta tutti quanti i panni\ si fece accollare.\Mo’, sembra si sia scocciata,\e gira all’uso antico\con neanche, come prima, appiccicata\una foglia di fico”.

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