Autore: Vittoria Butera

Il focolare

‘U focùne. A differenza del camino, ‘u focùne era privo di cappa. Era ricavato nella soffitta (‘u tavulàtu), che aveva una copertura fatta con travi di legno e tegole rimovibili, affinché il fumo, da dove era necessario, potesse fuoriuscire liberamente. In questi locali venivano appesi, su lunghi bastoni, i salumi per l’affumicatura.In quei tempi non era ammissibile lo spreco, perciò, non appena il fuoco avesse concluso la funzione per cui era stato acceso, spegnevano la legna in modo da riutilizzare gli avanzi in parte carbonizzati, i tizzuni. Questo succedeva in estate quando non servivano le braci per riscaldarsi. I tizzuni, simbolo di una natura già usata e ormai privi della linfa vitale, svolsero lo spiacevole ruolo della provocazione e dell’offesa nelle usanze matrimoniali: posti davanti la casa di una ragazza da marito, la disonoravano.

‘I carvuni. La legna veniva integrata con i carboni, che portavano dalla montagna entro grandi sacchi. Venivano usati d’inverno anche nel braciere, e non di raro succedevano incidenti per l’esalazione dell’anidride carbonica.

“Eessere nìuru cumu ‘nu tizzune (o cumu ‘nu carvune)”

Detto popolare. Traduzione: “Essere di umore nero come un tizzone, cioè essere molto arrabbiato”

‘A camastra e ‘u paiùalo costituivano un sistema di cottura. ‘A camastra, lunga catena formata da cerchi concentrici, pendeva da una barra di ferro tra le pareti del camino, al centro della cappa. All’estremità aveva un uncino a cui s’appendeva il paiolo. La camastra ricorre tra le immagini che affiorano in Vittorio Butera nelle ricorrenze del natale:

Sona, zampugna! Pòrtame luntanu

A ri tìempi filici ‘e quatraranza;

A nanna chi filava chianu chianu

Ntramente me cuntava ‘nna rumanza;

A ru zuccu chi ardìa sempre cchiu chiaru

Sutta ‘a camastra de ‘nu fuoculàru!

Vittorio Butera, “Natale”.

Il ceppo

Avendo avuto varie mansioni nella vita dei calabresi, il ceppo si distingue in zuccu e cippu.‘U zuccu. Un grosso pezzo di legno da ardere, perlopiù una sezione di tronco, era chiamato zuccu. Posto in senso orizzontale al focolare, serviva d’appoggio alla legna, che stando sollevata favoriva la circolazione dell’aria e l’accensione. La ricchezza di valori della vegetazione, a cui il ceppo è connesso, ha generato in Calabria numerose credenze  e usanze. Nelle tradizioni matrimoniali, i pretendenti, prima di avanzare la richiesta ufficiale, lo ponevano sulla soglia di casa della ragazza ambita e, a seconda che fosse portato dentro o rimosso dalla porta, si deduceva la risposta positiva o negativa del padrefamiglia. In questo ruolo dell’accippamento o azzuccamento, ‘u zuccu era fornito di radici per simboleggiare le basi della famiglia che il giovane desiderava fondare. E se era ben poderoso, segno di una solida economia familiare e di rispetto per il destinatario, sarebbe stato un ottimo strumento mediale. (Nota:  Cfr. Vittoria Butera, Il panno rosso, Città del Sole ed., 2013.)

A natale spettava al capo famiglia sistemare al fuoco ‘u zuccu più grosso, a cui gli altri familiari accostavano quelli più piccoli. Il ceppo principale che, data la sua mole, non si consumava entro la serata, veniva lasciato acceso durante la notte affinché ardesse sino alla consunzione totale; spegnendosi innanzi tempo,  sarebbe stato un cattivo auspicio per il capo di casa. Il sentimento religioso, invece, interpreta la persistenza del fuoco con la credenza che Giuseppe, Maria e Gesù, in fuga verso l’Egitto, sarebbero potuti entrare a ristorarsi in una qualsiasi casa. Il ceppo natalizio è ricordato da Vittorio Butera nella lirica “Natale”: “…’nu zuccu ‘ncarpinatu paru paru\arde cumu ‘na cima de jacchèra”, ossia il ceppo  completamente infiammato, splendente come la fiamma di una torcia, che diffondeva il calore del fuoco e faceva percepire quello avvolgente dei sentimenti familiari.

‘U cippu. Una sezione di tronco, livellato sulla superficie e usato come sedile, costituiva ‘u cippu. A differenza dei vanchi, i cippi non erano rifiniti. Erano scomodi, ma occupando lo spazio minore di una sedia consentivano di accogliere attorno al fuoco un maggiore numero di persone.

I cipparìelli, ricavati da tronchi meno grossi, erano destinati ai bambini. Sono tra gli oggetti rimasti impressi nel cuore degli adulti, come dimostrano i versi con cui Vittorio Butera rievoca il legame di Michele Pane (emigrato in America) con la sua casa natale:

Ma quantu, quantu cchiù m’è pparzu bbiellu

Chiru nuostru ricùotu fuocularu!

Cc’è ssempre a‘n’angulicchiu ‘u cippariellu

Dduve tu t’assittàve paru paru,

Quannu Tora cuntava a ttutti quanti

Storie de fate e ffatti de briganti!

Vittorio Butera, A staffetta. Traduz.: “Ma quanto, quanto più m’è apparso bello\quel nostro intimo focolare!\C’è sempre a un angolo il piccolo ceppo\dove tu ti sedevi felice,\quando Tora raccontava a tutti quanti\storie di fate e fatti di briganti”.

La caldaia

Termine derivato dal tardo latino caldaria. Caldaie, pentole, crateri, in varie culture antiche e medievali, sono veicoli magici, contenitori di un liquido divino, di ambrosia o di elisir; il graal è il calice dell’ultima cena in cui fu raccolto il sangue di Cristo. Il significato simbolico di questi oggetti, nelle culture indo-ariane, ascende alla tradizione dei caldai mitici e magici giacenti nei fondali marini e lacustri.

Nei nostri paesi sono dette quadare le caldaie grandi; quadarelle le misure più piccole. Data la notevole capienza, vi si preparavano confetture, provviste annuali, grandi quantità di cibo per determinate ricorrenze, ad esempio i banchetti dei matrimoni. Le più costose erano di rame, le altre di leghe metalliche diverse.Siccome erano oggetti destinati a durare, non c’era un intenso mercato, cosicché non tutti i paesi avevano in sede ‘u quadararu, l’artigiano addetto a realizzarle e a ripararle. Il calderaio, o ramaio, arrivava periodicamente sulla groppa di un asino e girava da via a via e da piazza in piazza, richiamando con un suo slogan chi avesse quadare da riparare.

Sulle caldaie di rame vi erano dei vincoli per salvaguardarle dall’usura dei frequenti prestiti e dai furti: di notte era vietato portarle fuori casa; qualora, per un’urgenza, fosse necessario traslocarle nottetempo, vi si metteva dentro un tizzone ardente per stornare il male.

Le famiglie benestanti possedevano una serie di caldaie di rame, che venivano tramandate insieme alla casa. Le più grandi e pregiate, i calderoni, non sono facilmente reperibili perché, durante la seconda guerra mondiale, fu imposto di donare il rame e l’oro alla patria. Alcune famiglie riuscirono ad occultarle costruendo un muro nelle cantine o nei sottoscala. In seguito, i modelli più piccoli vennero riprodotti; i calderoni scomparvero sia perché troppo costosi, sia perché il sistema familiare stava cambiando insieme a quello sociale e non servivano più per le funzioni tradizionali.

U puarcu è a ra muntagna e ra quadara vulle

Proverbio locale

è un proverbio che si recita quando si anticipano di troppo le cose. Poiché, con l’uso, le caldaie all’esterno annerivano, l’espressione: te si’ ‘mbrigatu ccu ra quadara (hai litigato con la caldaia) si dice di chi è cosparso di nerume.

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